In Officina

Un bravo Perito Industriale deve conoscere l’arte di costruire aeroplani, e per questo nel programma scolastico di allora erano comprese lezioni pratiche nelle attrezzate officine dell’Istituto.

Queste erano: aggiustaggio, falegnameria, saldatura, torneria, freseria, fucina, costruzioni aeronautiche, metrologia e prove tecnologiche di laboratorio.

Pertanto, con eccezione delle ultime due, l’allievo doveva indossare una tuta intera da operaio rigorosamente blu, secondo le disposizioni riportate su un libretto che veniva distribuito il primo anno di scuola. Ricordo che c’era una figura illustrante l’abbigliamento del perfetto allievo di officina, con tanto di berretto a bustina di foggia militare, quasi certamente retaggio del regime fascista e mai visto indossare. Il disegno in questione, ovviamente di maniera, rappresentava un tizio impeccabile e dall’aria determinata ad imparare tutto il possibile sulle arti manifatturiere.

Siamo in Italia e perciò, nella realtà dei fatti, le cose non andavano esattamente così.

Di solito, la tuta veniva acquistata nuova di zecca solo il primo anno di scuola, e di almeno due misure più grandi per compensare la sicura crescita del ragazzo. Altrimenti, si rimediava con quelle smesse da meccanici e operai veri, magari con scritte sul petto o sulla schiena con il nome della fabbrica o di qualche marca di batterie o di oli lubrificanti per auto, opportunamente cancellate ma pur sempre visibili.

Il risultato era l’esatto contrario del fantoccio disegnato sul libretto distribuito dalla segreteria. Sembravamo un piccolo esercito di piccoli Cipputi, con tute blu ma di tonalità assortite, chi, più giovane, con maniche e calzoni debordanti e chi, più “anziano”, stretto dentro ad una specie di camicia di forza. Insomma, c’era chi sembrava Cucciolo dei sette nani e chi Charlot.

Così, questa Armata Brancaleone usciva più volte alla settimana dagli spogliatoi del seminterrato e, con le maniche e i pantaloni arrotolati o irrigiditi dalla tuta troppo corta e stretta, si recava nell’officina di turno, pomposamente denominata “Laboratorio” di qualche cosa.

Il primo “Laboratorio” che si incontrava nella nostra vita di aspiranti Periti Industriali, era l’officina di aggiustaggio. A dispetto del nome, qui non si riparava niente, ma si passava il tempo a passare una lima avanti e indietro su un pezzo di ferro grosso come un pacchetto di sigarette.

Bloccato il pezzo nelle morse, ognuno, con la sua brava lima scolastica, grattava il pezzo di ferro con lo scopo di renderne le sei facce perfettamente piane e in squadro tra di loro; ogni angolo doveva cioè essere di novanta gradi, né mezzo di più, né mezzo di meno. Per la verifica usavamo una squadra metallica assolutamente precisa e implacabile nel dimostrarci che era sempre tutto storto.

Quando credevamo di essere riusciti a spianare un lato, ci recavamo in processione dall’insegnante con l’aria tipica dei postulanti. Questi nel nostro caso era l’ottimo ma inflessibile Sig. Tritapepe, il quale verificato con metalmeccanica rapidità e precisione ciascun pezzo, con altrettanta rapidità ci rimandava a limare dicendo “Devi lima’ qui e qui!”, e tracciando croci con la matita blu sul pezzo di ferro dove aveva individuato le “gobbe”.

Se si dimostrava di essere particolarmente coriacei, il Tritapepe non usava più la matita per segnare le “gobbe”, ma, con modi materni, picchiava il pezzo direttamente su uno spigolo vivo della morsa. In tal modo l’allievo, che gli era profondamente grato fino alle lacrime, non poteva perdere di vista i punti da limare, anche perché per togliere i piccoli crateri ci voleva un bel po’ di olio di gomito E vaai, altra limata!.

Con questo andazzo il parallelepipedo di ferro, dalle dimensioni originarie di un pacchetto di sigarette da 20, passava velocemente a quelle di un pacchetto da 10. Con il ferro faticosamente limato ci si sarebbe potuto fondere un piccolo esercito di soldatini.

Qualcuno è riuscito a ridurre il pezzo di ferro allo spessore di una tavoletta di cioccolato, e quando le speranze di poter passare a limare gioiosamente il lato opposto si erano ridotte al lumicino, il nostro Tritapepe, colto da rari attacchi di magnanimità, capiva il dramma del giovane e chiudeva un occhio. E allora si festeggiava tutti quanti.

L’unica cosa veramente imparata a fondo era il modo di procurarsi i calli sulle mani, i primi della nostra vita.

Tra l’altro, le grosse e potenti lime dette “a sgrosso” o “a mazzo” (non è una parola turpe) messe a disposizione dalla scuola spesso erano passate per le mani di qualche generazione di allievi, e quindi, più che grattare, carezzavano dolcemente il metallo. Così, parecchi di noi se le compravano dal ferramenta, e più tedesche erano, meglio era. Io ho ancora la mia sul mio banchetto da lavoro in garage, e quando serve la uso con… sapiente maestria.

Dopo qualche mese, finito il lavoro “a sgrosso” per bravura, a calci o per esaurimento del tempo limite, si ripassava ciò che rimaneva del povero pezzo di ferro con la lima “a fino”, detta anche “triangolo” perché aveva tre facce.

Qui si faceva la virtù dell’aggiustatore, perché la precisione richiesta era molto più alta, e non bastava più la famosa squadretta di acciaio. Per verificare la planarità della faccia limata la si doveva strofinare vigorosamente su un piano di acciaio durissimo spalmato di una pasta blu, detta “blu di metilene” o “blu di Prussia”. Non ho mai capito che cavolo c’entrassero i più tedeschi di tutti, forse per l’infallibilità del metodo, perché, come si può intuire, gli “avvallamenti” si coloravano di blu, ed era lì che si doveva limare. Purtroppo nella manovra ci spalmavamo distrattamente il quasi indelebile blu anche su mani e polsi.

Questa volta le lime erano di precisione e non si doveva spingere come forsennati; anzi, si doveva manovrare con la delicatezza di una merlettaia. Peccato che i risultati erano sempre gli stessi, desolanti e frustranti.

Credo che quasi tutti abbiamo salutato la fine delle lezioni di aggiustaggio con un giusto sollievo. Mai materia pratica è stata più pallosa di questa. Ci tengo a dirlo.

Negli anni successivi abbiamo dovuto affrontare contemporaneamente più di una materia di “laboratorio”, con un impiego di tempo non indifferente. Come si può vedere nella figura sottostante, in cui è riprodotto l’orario settimanale personale di Lucio Cerreti, che ringrazio per la gentile concessione, avevamo sette ore totali di officina, divise tra saldatura (quattro) e torneria-freseria (tre).

L'orario settimanale
L’orario settimanale della 4° CB, 1968-1969

Con la falegnameria abbiamo avuto il primo approccio alle costruzioni aeronautiche. I primi aeroplani erano infatti costruiti con legno, tela e un po’ di ferro.

Il nostro insegnante, il Sig. Mascolo, napoletano al 100%, ci introdusse alle tecniche di fabbricazione delle ali di legno.

Ma prima di passare all’oggetto da costruire, che poteva suscitare qualche interesse, dovevamo apprendere i fondamenti della falegnameria. Fu così che ci trovammo in mano una sega a telaio, di quelle che non si usano più dalla prima guerra mondiale e che si vedono in qualche film storico sulla Bibbia o i Vangeli.

Con questo arnese arcaico (l’ha usato anche Noè) il nostro Mastro Geppetto ci obbligava a tagliare a “pettine” un pezzaccio di legno, seguendo maldestramente linee parallele tracciate a matita con un altro strumento dell’antichità, il “graffietto” (non lo usano più nemmeno i falegnami di coccio del presepio). Inutile dire che nessuno riusciva ad andare dritto con quella sega infernale.

Per chi abbia voglia di approfondire l’argomento consiglio di consultare l’Enciclopedia Britannica alla voce “sega”. Non rispondo di confusioni causate da eventuali omonimie.

Ecco la segaSuperato o meno l’ostacolo e buttata via l’orrenda sega a telaio, iniziammo a costruire le centine e i longheroni di legno.

Il Mascolo ci illustrava l’arte del falegname aeronautico con la tipica flemma partenopea, indossando un camice nero e un cappello alla borsalino in qualunque stagione; ogni tanto apostrofava con “Cap’e Ciuccio!” quelli che erano in difficoltà.

Fedele al suo legnoso credo, non tollerava l’uso di lime per rifinire gli oggetti, al massimo si poteva usare la carta vetrata. Un giorno pizzicò Fusco intento, da bravo aeromodellista, a smussare con la lima spigoli e angoli del pezzo di longherone che aveva appena finito.

“Fammi vedere…” disse al compagno cominciano i dolori.

Convinto di aver fatto un buon lavoro, A. F. posò con soddisfazione il suo manufatto sul banco di lavoro. Purtroppo, dovette cambiare istantaneamente idea, perché Mascolo vibrò un colpo terrificante sulla fatica di A. F. con un martellone che portava sempre con sé, ben nascosto dietro la schiena.

“E mo’ lo rifai daccapo, guaglio’! E senza ‘a lima!”

Allo sconsolatissimo A. F. non restò che raccogliere le briciole del suo ex capolavoro e ricominciare da zero.

Guanto di velluto e martellone di legno…..

Se la falegnameria aeronautica richiede sufficiente forza ma soprattutto precisione, la fucina, ovvero l’arte dei fabbri ferrai, richiede ancora precisione ma soprattutto una forza e una resistenza da spaccapietre.

Una fucinaMenare martellate su un pezzo di ferro rovente, vicino ad un braciere sempre acceso, in un ambiente pregno di fumo e rumore non è esattamente un’attività intellettuale, anche se devi necessariamente mantenere una lucidità mentale sufficiente per evitare di dare martellate a casaccio.

Come l’aggiustaggio, fucina non era una materia molto esaltante, ma manteneva comunque il fascino di poter plasmare a piacere il metallo in un modo che sarebbe distruttivo per qualsiasi altra materia.

Purtroppo il fascino, se c’era, non era compensato dal successo.

Dopo aver esercitato la mano su pezzi di ferro qualsiasi, uno dei primi oggetti di senso compiuto da realizzare era uno scalpello, da forgiare, molare e temprare. Insomma, un lavoro da fabbro vero.

Purtroppo, fabbri si nasce, ci vuole fisico adatto, resistenza e calli in quantità. Cose che non si comprano. Veniva fuori di tutto, su quegli incudini, ma mai qualcosa che somigliasse veramente ad uno scalpello. Al massimo, quegli sgorbi di ferro potevano andare, spacciandoli per arte, a qualche mostra cubista. Tutti quei piccoli maniscalchi, insomma, facevano un gran rumore e basta.

Per fortuna, nelle officine c’erano gli assistenti. Se gli insegnanti erano la teoria, questi erano l’esperienza fatta persona. Essi cercavano generosamente di mostrarci come si sarebbe dovuto fare, ma poi finivano spesso per correggere i nostri vistosi errori.

Il bello è che lo facevano in tutta scioltezza: un po’ di martellate fatte bene e, voilà, l’oggetto informe che noi avevamo battuto per ore e ore invano era diventato perfetto, proprio bellino. Alla fine della performance, qualche volta l’assistente di fucina si accendeva voluttuosamente una sigaretta con il ferro ancora rovente. Come per dirci “Io sono io, e voi non siete un ……”

I piccoli Cipputi dovevano inoltre cimentarsi nel nobile mestiere delle lavorazioni metalliche con le macchine utensili, ovvero dovevano imparare ad usare torni e frese.

Per chi, estraneo al nostro ambiente, non avesse chiaro cosa è un tornio e una fresatrice, dirò brevemente che il primo è un macchinario dove tu metti un pezzo di ferro, lui lo fa girare su se stesso e tu, manovrando sapientemente manovelle e leve, gli dai la forma cilindrica che desideri. Il risultato viene ottenuto ripetendo più volte il passaggio della macchina sul pezzo. Con questo arnese si fanno un sacco di cose, come gli alberi dei motori, gli assi delle ruote, ed anche palle se uno è bravo.

La fresatrice è un altro marchingegno che invece di far girare il pezzo di ferro ci passa sopra con una rotella dentata che, girando, mangia il metallo. Anche qui, con un uso sapiente di manovelle, leve e rotelle dentate (le frese, appunto), si possono creare fantasiose forme poligonali e ingranaggi di qualunque tipo e forma. Anche qui, bisogna ripetere molte volte i passaggi sul pezzo di metallo per avere finalmente l’oggetto desiderato.

E’ evidente che queste apparecchiature e i loro accessori hanno un costo non indifferente, ben superiore a quello di una sega da falegname e di un incudine. A causa del cronico e antichissimo dissesto economico della pubblica istruzione italiana, i torni e le frese in dotazione al “Galilei” avevano almeno il doppio della nostra età di allora, però funzionavano quasi tutti. A Luparia ne era stato assegnato uno che, forse dotato di una propria personalità, un giorno non voleva fermarsi più nemmeno dopo il fine corsa, avvicinandosi pericolosamente al mandrino (la grossa morsa ruotante dove si mette il pezzo da lavorare). Voleva insomma tornire sé stesso. A nulla valsero le frenetiche manovre del nostro compagno, e solo l’interruttore generale fermò in tempo la macchina ribelle.

In realtà, per essere un bravo tornitore e fresatore, oltre alla fondamentale preparazione, per arrivare alla fine della lavorazione ci vuole una buona scorta di pazienza, parola che era a noi sconosciuta. Queste macchine mangiano il metallo lentamente e un poco per volta, e perciò tra una “passata” e l’altra ti facevi due maroni così. E allora, nonostante le raccomandazioni degli insegnanti, si cercava di far prima facendo mangiare più metallo possibile ad ogni viaggio. L’attrezzo che taglia il metallo si riscalda mentre lavora, e bisogna raffreddarlo con l’ ”acqua chimica”, un’emulsione di olio e acqua che veniva spennellato nella zona di contatto tra attrezzo e pezzo in lavorazione. Quando, per finire prima, si forzava la mano alla macchina il calore aumentava notevolmente, tanto da far diventare violacei i trucioli di ferro, e la spennellata di acqua chimica non bastava più. Una volta ho rovesciato tutto il barattolo per rimediare ad una situazione infuocata, con conseguente fumata bianca e cazziatone del prof.

Ma il fumo era il danno minore. In quelle condizioni anche gli attrezzi che tagliano il metallo erano troppo sollecitati. Personalmente ho messo fuori uso un utensile speciale da tornio, che, al contrario di quelli normali, era spinto verso l’alto. Sicché si spezzò, andandosi a stampare sul soffitto dell’officina. Poi è stata la volta di una ancora più costosa fresa per ingranaggi, alla quale ho fatto perdere un dente: somigliava ad una dentiera rotta.

Finora non mi è arrivata nessuna nota di addebito. Forse gli insegnanti erano consapevoli che nessuno di noi avrebbe mai saputo usare appena decentemente un tornio o una fresatrice. Io meno di tutti.

Altra materia di officina altamente tecnologica era saldatura, ovvero la tecnica di unione stabile di pezzi di metallo tramite la fusione.

Di metodi di saldatura ne esistono diversi, ma tutti richiedono calore per fondere i metalli. Al “Galilei” ci cimentavamo in tutte le discipline conosciute: saldatura ad arco elettrico, saldatura elettrica a punti, saldo-brasatura, saldatura ossiacetilenica. L’ultima è la più tradizionale.

Come si fa?
Innanzitutto bisogna avere due grandi bombole piene di gas, un cannello collegato con queste, occhiali da saldatore (che conferiscono a chi li usa un aspetto un po’ da alieno) e una bacchetta di metallo. Si accende la fiamma e la si regola finché forma e colore siano perfetti, da manuale. Terminati i preliminari si avvicina il cannello alle lamiere da saldare, fino a lambirne la superficie con la punta della fiamma. Quando, dopo pochi secondi, il metallo arriva alla temperatura di fusione, si deve “inzuppare” ripetutamente la punta della bacchetta nel piccolo cerchio fuso, e spostandosi lentamente con la fiamma lungo la linea di saldatura.
Semplice, no?

Se la teoria, come sempre, è relativamente alla portata di tutti, la pratica è drasticamente diversa.

Nel processo rozzamente descritto prima, la precisione e l’uniformità dei movimenti manuali sono fondamentali. Basta un’indecisione o un eccesso di fretta e il lavoro viene male.

Il ferro è, dal punto di vista della saldatura, un metallo sincero ed onesto, perché cambia progressivamente colore prima di fondere completamente. Puoi così prepararti in tempo per partire con l’ ”inzuppamento” senza causare buchi.

L’alluminio, che è il metallo alla base dell’aeronautica, è invece un vero delinquente, il mafioso della saldatura. Invece di cambiare colore, fa finta di niente fino a fondere rovinosamente come una tavoletta di cioccolata. Al massimo, si appanna un po’, e poi cola improvvisamente dappertutto, e tu ti ritrovi con un buco incolmabile grande come un’albicocca.

A dir la verità, anche il ferro a volte è subdolo, specialmente quando è fatto a forma di tubo. Basta soffermarsi un po’ di più del necessario e lui, pof!, si buca come un palloncino. Ne sa qualcosa Claudio Gargottich, che dopo averne rattoppati chissà quanti di buchi, all’ennesimo perse la pazienza e, con tutti i sentimenti, tirò un bel calcio di rigore con il tubo ancora caldo, mandandolo verbalmente anche in quel posto. E subito l’insegnante, con l’aria dell’arbitro di calcio inflessibile, punì il fallo:

“Gargottich, ti metto un pallettone!” (sul registro)

Pochi erano bravi a saldare l’infido alluminio. Uno di questi era Luciano Bragalone, che aveva inventato un metodo particolarissimo per evitare la voragine fusa. Avvicinata la fiamma al metallo, cominciava a picchiettare rapidamente la bacchetta sulla lamiera, e non appena questa iniziava a sciogliersi, partiva come un treno rapido, senza fermarsi mai prima della fine.

Il metodo era empirico, ma funzionava. Peccato che una volta Bragalone valutò sufficientemente lunga la bacchetta di alluminio, che invece si ridusse a tre o quattro centimetri in prossimità della mèta. Determinato comunque ad andare avanti, finì la saldatura quasi bruciandosi due dita della mano con cui “inzuppava” la bacchetta.

“Aaaaaaaaaaaaahhhhhh…..rcatroiaaaaaa!!!!” Solo qualche dito in meno

L’urlo che cacciò in piena corsa mentre finiva la saldatura, immolando la bacchetta e quasi due dita, lo fece somigliare a un centometrista che taglia il traguardo con uno sforzo sovrumano.

Fu un bel gesto atletico.

di Luciano Calvani - 14/10/2005

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