A carnevale...

... Ogni scherzo vale. E così fu anche durante quel Carnevale del 1970, ultima occasione utile per sfogare i nostri istinti repressi prima dei fatidici esami estivi A carnevale ogni scherzo vale....

Gli studenti, si sa, sono focosi, ribelli e imprevedibili. Soprattutto, sono giovani. Queste caratteristiche sono proprie dell'età e vengono esaltate dalle pressioni alle quali essi sono sottoposti: lo studio, i genitori e gli adulti in genere, spesso la mancanza di pecunia, quasi sempre gli ardori sessuali Anche a carnevale non si placavano, anzi....
Noi che, purtroppo, abbiamo già allegramente superato questi problemi, dovremmo ricordarcene quando ci lasciamo andare a critiche e disapprovazioni del comportamento dei nostri e degli altrui figli. Del resto, anche noi siamo stati così. Le condizioni sociali ed economiche erano certamente diverse, ma, alla fine, lo sostanza era la stessa. Peccato che, con il passare del tempo, diventa sempre più facile dimenticare i propri aspetti negativi.

Quello che precede gli esami di maturità per molti di noi è stato l'ultimo Carnevale da "cocchi di mamma"; le eventuali eccezioni non fanno che confermare questa regola, anche se la tendenza attuale porterà, giustamente, a sostituire questo Carnevale con quello che precede il giorno della discussione della tesi di laurea.

Quasi inconsapevolmente ci si avvia verso la vita socialmente matura e, altrettanto inconsapevolmente, si fa sempre più rumore del solito per l'imminente evento. Per certi versi, gli esami sono simili a uno degli altri momenti determinanti della nostra esistenza: l'addio al celibato, con relativo funerale alla vita libera e indipendente, e che, come il Carnevale, fornisce alibi a iosa per qualunque goliardata. Come si dice a Roma, in certe occasioni "si sparano gli ultimi botti" Botti di carnevale, ovviamente....

E di botti veri quell'anno ne sparammo parecchi. Si formarono addirittura dei gruppi di acquisto spontanei per far fronte alle spese per tric-trac, bombe puzzolenti e lacrimogene, polvere pruriginosa e altre delizie del genere.

L'aula di disegno, sede degli scherzi di carnevaleL'occasione migliore per certi "happening" erano le ore di disegno. Nella grande aula i tavoli verticali fornivano degli ottimi ripari dagli sguardi, peraltro non sempre vigili, degli insegnanti. Disponendo opportunamente i nostri attrezzi di lavoro si ricavavano quasi dei bunker, dove era possibile giocare a carte, consumare ricche colazioni, leggere e perfino disegnare.

Sì, disegnare. Avete letto bene. Ma che bisogno c'era di nascondersi per fare una cosa che, in quelle ore, era istituzionalmente obbligatoria? Dipende da quello che disegni Ed a carnevale le menti erano particolarmente fervide.

Stufi di disegnare bulloni, pezzi di aeroplano e altre cose non proprio eccitanti, sfogavamo spesso le nostre represse qualità artistiche disegnando, diciamo, parti anatomiche nei loro più divertenti aspetti.

Così, sui muri e sui tavoli dell'aula si potevano ammirare 'cosi' a forma di dirigibile, missile, nave, mano, carro armato, ecc., nonché rappresentati secondo i rigidi canoni del disegno tecnico e geometrico: concentrici, paralleli, in proiezione assonometrica, cavaliera, dimetrica e ortogonale. Non c'erano limiti alla fantasia. Ricordo che ce n'era uno che partiva vicino alla porta e si faceva, senza interrompersi mai, la circumnavigazione dell'aula fino a tornare al suo punto di origine. Praticamente un viaggio di una trentina di metri I famosi munghi di carnevale.

Tuttavia, il tutto era disegnato rigorosamente a matita, perché noi, in fin dei conti, rispettavamo la scuola e le sue mura. Non usavamo pennarelli o bombolette spray.

In questa specie di Cappella Sistina del profano, la giornata del martedì grasso cominciò quindi con un nutrito lancio di bombette puzzolenti e lacrimogene, tanto che ad un certo punto il professore ci fece uscire tutti, facendo aprire porta e finestre.

L’aula di una scuola è quel luogo dove, una volta entrato, potevi uscirne solo a lezione conclusa o per improrogabili necessità fisiologiche, oltre che per malori reali o autenticamente fasulli. Perciò, quell’inaspettata “libera uscita” aveva un sapore insolito, come quello di una ricreazione dimenticata fin dai tempi delle elementari. Ma, a differenza di quanto si faceva nell’infanzia, non eravamo più capaci di correre e gridare felici. Ormai eravamo “grandi”, e allora dovevamo inventarci qualcosa per passare il tempo nell’attesa che la nube lacrimogena si dissolvesse. Ed anche in questa circostanza emerse la “classe” dei più anziani.

ITIS "G.Galilei" – Corridoio lato  Via Conte Verde, con gli sportellini “L”Il “Papà”, al secolo Germano Battistoni, come di solito vestito di tutto punto nel suo aplomb impiegatizio, ciondolava su e giù, davanti alla porta, con le mani in tasca e lo sguardo mobile in cerca di tutto e di niente. All’improvviso si fermò a fissare uno sportellino degli interruttori generali delle luci. Nei corridoi dell’Istituto, gli interruttori generali erano montati all’interno di piccole nicchie nel muro, e protetti da sportellini metallici chiusi da rudimentali serrature, le cui chiavi erano in possesso dei bidelli addetti all’accensione a allo spegnimento dell’illuminazione. Questi sportellini metallici avevano dei piccoli fori collocati in modo tale da comporre una vistosa “L”, come Luce, secondo la maniacale precisione autarchica del ventennio.

Dopo un po’ mi accorsi che il capoclasse stava studiando attentamente i piccoli fori, senza che ne riuscissi a capire il motivo. Alla mia domanda, la richiesta fu telegrafica: “Come dice er Fattorini – insegnante di Tecnologia – ‘e tolleranze so’ tre: passa, nun passa, ce sciacqua.”. Così dicendo, estrasse da una tasca della giacca una salsiccia di tric-trac, ne prese uno e lo infilò in uno dei buchi. Constatando la perfetta corrispondenza delle misure, esclamò “Passa!”. All’improvviso mi fu chiaro l’intento del “Papà”. Istintivamente feci un passo indietro, mentre l’altro finiva di inserire i piccoli petardi, uno per buco. Completata l’opera, lo sportellino sembrava una strana torta di compleanno, con le testoline delle piccole candele rossastre che emergevano dai buchi. Mancava solo la scritta “Buon compleanno”.

Appena accesa la miccia ci allontanammo tutti in trepida attesa, con le spalle sul muro di fronte. Date le dimensioni dei corridoi, la distanza era sicura anche per una carica di tritolo. L’opera pirica del “Papà” fu coronata da pieno successo: i tric-trac esplosero in perfetta successione, aprendo perfino lo sportellino e facendo saltare l’interruttore, con conseguente oscuramento del corridoio e forse di qualcos’altro. Come uno scemo, abbracciai il “Papà”, e, come due scemi, saltammo e gioimmo come ad un gol della nazionale, felici del buon esito dell’impresa carnevalesca.

Non altrettanto felice fu il vicepreside, che s’incazzò moltissimo Anche a carnevale.

Il momentaneo black-out fu prontamente ripristinato da un bidello accorso poco dopo con la faccia del “Ci penso io”.

Ritornati in aula, ci dovemmo sorbire una paternale del professore. Seduto, ma non molto, sulla sua sedia e dall’alto della modesta pedana, sembrava Savonarola rivolto alla plebe, che eravamo noi, raccolta intorno alla cattedra.
Finita la predica e sciolta la plebe, ciascuno tornò al suo posto e, teoricamente, alle sue occupazioni.

Ma i festeggiamenti del Carnevale non erano ancora finiti.

Dopo un po’, mi apparve P. S. con un cestino e mi chiese se avessi carta da buttare via. Alla mia richiesta del perché e del percome mi rispose “Mo’ lo vedi.”

Infatti, dopo qualche minuto, cominciai a sentire puzza di bruciato. Non è un modo di dire, era puzza vera, come il piccolo incendio nel cestino, messo nel bel mezzo dell’aula tra due o tre tavoli spostati alla bisogna. L’incendio non era motivato da istinti rivoluzionari, ma doveva essere una piccola protesta – onestamente un po’ pericolosa – per la mancanza di riscaldamenti. L’aula, dopo l’apertura delle finestre, era diventata alquanto fredda, e il vecchio impianto di riscaldamento era spento.

Ovviamente, l’odore di bruciato se ne andò per i fatti suoi, arrivando a molte altre narici fuori dall’aula. Due di queste erano del vicepreside, che si vide costretto ad accorrere sul posto per la seconda volta in pochi minuti. Stavolta l’incazzatura fu di una magnitudo molto più grande della prima. Il poveraccio ci rampognava con una voce strozzata dalla rabbia, tanto da sembrare posseduto. Ai suoi ordini di spegnimento dell’incendio, accorse gridando “Ci penso io!” l’ineffabile Leonardo Grano, che dalla sua vetusta borsa da veterinario estrasse due magnifiche pistole ad acqua ben
cariche A carnevale si sparava anche.

Sì, perché Grano amava recarsi a scuola con una dotazione veramente completa: forbici, colla, nastro adesivo, cucitrice, martello, sega… Con il Carnevale in corso due pistole “a schizzo” non potevano mancare nel suo necessaire. Diventato adulto, ma, buon per lui, rimasto fanciullo, ha mantenuto la sua abitudine, forse aggiungendo nella sua borsa a tracolla cacciaviti, chiavi inglesi, una fionda e magari un ferro da stiro.

Leonardo iniziò perciò a sparare acqua sul piccolo incendio mirando alla Kit Carson, una volta con la destra e una volta con la sinistra, così come aveva visto fare in chissà quanti film western. Il pistolero poi, per aggiungere realismo, accompagnava ogni colpo con uno “tzing!”. Il tutto accompagnato dai “Bravo! Bravo!” della plebe.

L'onda di carnevale

Doveva averne viste tante, il vicepreside. Ma come questa forse no.
Il suo volto, da irato e contratto che era, si rilassò in uno sguardo perso a osservare il “pazzo” che sparava acqua. Sembrava quasi sereno, forse rassegnato.
Se ne andò via, muto come un pesce e ciondolando la testa a destra e a sinistra, ad assegnarci il primo rapporto collettivo alla carriera del 5° CB.

di Luciano Calvani - 24/11/2005

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